Osservazioni critiche sul disegno di legge Maiorino in materia di prostituzione

Osservazioni sul DDL S. n. 2537 “Modifiche alla Legge 20 febbraio 1958, n. n75, e  altre disposizioni in materia di abolizione della prostituzione”  

Prima firmataria Senatrice Alessandra Maiorino  

Le considerazioni che seguono riflettono l’opinione del Gruppo Esperte/i contro  sfruttamento e tratta, composto da Maria Grazia Giammarinaro, Maria (Milli) Virgilio,  Vincenzo Castelli, David Mancini, Andrea Morniroli, Tiziana Bianchini, Francesco  Carchedi, Paola Degani, Gianfranco Della Valle, Daniela Mannu, Emilio Santoro,  Francesca Nicodemi, Fabio Saliceti, Fabio Sorgoni, Alberto Mossino, Giuseppe Gulia,  Pia Covre, Nazzarena Zorzella, Lorenzo Trucco, Marco Paggi, Letizia Palumbo,  Rosanna Paradiso, Gabriella Friso, Erica Cianchi, Alice Dieci, Giorgia Serughetti, Tamar Pitch.  

 Da diversi anni, in maniera ricorrente e da più parti, si invoca una riforma della normativa sulla  prostituzione, che modifichi la legge Merlin del 1958, tuttora vigente. Fu, all’epoca, una legge dalla  parte delle donne e dei loro diritti, ispirata all’idea di liberare le donne dalla schiavitù dei bordelli  controllati dallo Stato ed ebbe il grande merito di sancire la depenalizzazione delle condotte delle  donne che si prostituivano.  

 Il Gruppo Esperte/i contro sfruttamento e tratta concorda sulla esigenza di una riforma della  legge Merlin, ma chiede che la nuova normativa sia ispirata alla medesima ottica di protezione dei  diritti di coloro – donne, uomini, LGBT+ – che svolgono lavoro sessuale.  

 Intendiamo pertanto aprire un’interlocuzione fattiva con i/le firmatari/e del disegno di legge S.  n. 2537, ma dobbiamo dissentire fermamente dal c.d. modello nordico, fondato sull’obiettivo di  criminalizzare le condotte dei clienti delle persone prostituite, che già si è dimostrato – come in  generale le politiche c.d. neo-abolizioniste – controproducente in un’ottica di diritti e di protezione  dallo sfruttamento. Tale approccio è non solo inadeguato a produrre una migliore protezione dei diritti  di coloro che si prostituiscono, ma anzi è suscettibile di aggravarne le condizioni di vita.  

 In primo luogo, il c.d. modello nordico concentra l’attenzione delle istituzioni sulla punizione  dei clienti, mentre le politiche sulla prostituzione dovrebbero essere mirate all’empowerment delle  donne e di tutte le persone che si prostituiscono, in quanto prioritariamente considerate come titolari  di diritti.  

 La criminalizzazione dei clienti solo teoricamente sposta la riprovazione sociale sugli uomini  che acquistano servizi sessuali. Invece, di fatto, la stigmatizzazione dei clienti inevitabilmente  coinvolge non solo chi acquista, ma anche chi vende servizi sessuali, e così alimenta il diffuso  approccio repressivo che grava sulla prostituzione in quanto tale.  

 Né le conseguenze dell’approccio neo-abolizionista cambiano se – come nel Ddl S.n..2537 – la  sanzione nei confronti dei clienti è una sanzione di natura amministrativa, che può tramutarsi in  sanzione penale in caso di recidiva dopo un primo ammonimento. In tema di sanzioni, non conta il  nomen iuris, perché è l’approccio sanzionatorio stesso (amministrativo e/o penale) a produrre di per  sé quella stigmatizzazione sociale che finisce per colpire anche chi svolge lavoro sessuale.  

 In secondo luogo, la criminalizzazione dei clienti (o comunque l’imposizione di sanzioni)  provoca inevitabilmente uno scivolamento dell’intera prostituzione in un’area di illegalità. E’ ben  noto che l’illegalità del contesto ha un impatto negativo sulle condizioni di vita delle persone che si  prostituiscono. Infatti, a causa della necessità di nascondersi, ess* sono costrett* a frequentare luoghi  più periferici e pericolosi, nei quali aumentano i rischi e gli abusi, e non solo da parte dei clienti.  L’alternativa è spostarsi indoor, così diventando ancora più invisibili e dipendenti dagli sfruttatori, o  privilegiare il contatto via web, che tuttavia comporta notevoli pericoli derivanti dalla impossibilità  di selezionare il cliente. Del resto, che lo spostamento verso aree meno visibili comporti maggiore 

rischio per la sicurezza delle persone, è già osservabile in Italia in tutti quei comuni che hanno  emanato ordinanze anti-prostituzione, non solo quando queste colpiscono chi si prostituisce ma anche  quando – in linea con l’approccio del modello nordico – colpiscono i clienti.   Questi rischi sono ancora più gravi nel caso delle donne, LGBT+ o uomini vittime di tratta o  comunque soggett* a gravi forme di sfruttamento sessuale. Molte donne immigrate, ad esempio,  subiscono l’abuso della propria vulnerabilità sociale ed economica, e spesso varie forme di ricatto e  di violenza. Una prostituzione più nascosta è più difficile da approcciare da parte dei servizi anti tratta, e in particolare dalle unità di strada e di contatto, cioè il mezzo attraverso il quale si favorisce  l’accesso ai servizi di informazione e prevenzione sanitaria. Ciò inoltre rende più ardue anche le  indagini investigative contro la criminalità organizzata.  

 Occorre invece adottare politiche che agevolino i percorsi di empowerment, rendendo le  persone che si prostituiscono più forti e più capaci di intraprendere percorsi di inclusione sociale.  Nelle premesse del disegno di legge si sostiene che il modello nordico adottato in Svezia e  Norvegia abbia portato a un netto decremento della tratta a scopo di sfruttamento sessuale, e che la  criminalizzazione della prostituzione abbia condotto altresì a “tangibili progressi anche in materia di  parità di genere”. Dobbiamo smentire tale assunto sulla base del cd. paradosso nordico: in quei Paesi  il livello di violenza di genere è superiore al tasso medio europeo e supera quello di Paesi come l’Italia  o il Portogallo. Quanto ai dati risultanti dagli ultimi Global Gender Gap Reports, rileviamo che i  miglioramenti e i peggioramenti nelle disparità di genere nei Paesi interessati sono basati su quattro  criteri (economia, salute, istruzione e rappresentanza politica) che tuttavia esulano da indicatori  specifici, quali, appunto, il livello della violenza di genere. Quanto all’effetto di diminuzione della  tratta, i rapporti di diversa fonte riguardanti l’attuazione delle legislazioni dei Paesi nordici  contengono valutazioni divergenti. In realtà non vi è alcuna evidenza che il c.d. modello nordico  abbia prodotto una diminuzione della tratta per sfruttamento sessuale.  

Al contrario, vi sono molti indizi in base ai quali è possibile affermare che la vulnerabilità  delle persone soggette a sfruttamento sessuale è aumentata. Ad esempio, nei Paesi che hanno adottato  il c.d. modello nordico, tra cui nel 2016 la Francia e nel 2017 l’Irlanda, diverse sex workers hanno  rivelato di avere subito pressioni da parte di agenti di polizia che volevano indurl* a denunciare il  loro clienti, talvolta sotto minaccia di espulsione se si trattava di migranti in situazione irregolare.  Inoltre, anche in Francia, come del resto in Svezia fin dagli anni ’90, la stigmatizzazione sociale della  prostituzione è aumentata a seguito dell’adozione della legislazione neo-abolizionista. Anche nel  nostro Paese si è verificato un aumento delle intimidazioni ai danni di prostitut* collegato alla  adozione di ordinanze comunali repressive cd. anti-prostituzione, che ha alimentato un generale  sentimento di sfiducia nei confronti delle forze di polizia e, conseguentemente, la riluttanza o il rifiuto  di denunciare in caso di sfruttamento e/o violenza. Ciò comporta un indubbio effetto negativo sulle  investigazioni di polizia contro i trafficanti e le relative indagini della magistratura.  

 In terzo luogo, è una falsa prospettazione che il cd. modello nordico (che peraltro,  contrastando la prostituzione come una forma di violenza contro le donne si muove in una ottica  inadeguata alla realtà italiana, costituita quasi al 30% da transessuali con transizione non  completata – dati della mappatura di strada maggio 2022) perseguirebbe l’obiettivo dell’ ”abolizione”  della prostituzione attraverso la diminuzione della domanda di servizi sessuali: la diminuzione della  domanda non provoca la diminuzione dell’offerta; rende invece più gravi e precarie le condizioni di  vita delle persone che si prostituiscono, costrette a negoziare al ribasso a causa della maggiore  concorrenza e ad accettare pratiche sessuali più rischiose, con l’effetto di ritardare il pagamento del  debito che spesso hanno contratto con gli sfruttatori. Inoltre, anche per le sex worker che svolgono la  propria attività in autonomia, la contrazione della domanda determina l’inevitabile ricorso a  intermediari. Pertanto la penalizzazione degli acquirenti di servizi sessuali, ben lungi dall’incidere  positivamente, comporta il rischio di caduta in forme peggiori di sfruttamento sessuale.  

 Del resto una riforma della legge Merlin non può prescindere da una ampia e radicale  depenalizzazione di tutte le condotte che oggi vengono punite come favoreggiamento, mentre spesso  non sono altro che comportamenti cooperativi e di aiuto reciproco tra sex workers. Occorre dunque  depenalizzare la prostituzione esercitata in autonomia presso la propria abitazione o in forma 

associata in un locale di cui si abbia la disponibilità. Resterebbe criminalizzato il solo reato di  sfruttamento della prostituzione altrui, inteso come condotta di costrizione a prostituirsi o a continuare  a prostituirsi mediante violenza, minaccia, inganno o imponendo luogo, tempo o altre circostanze e  modalità di esercizio. Si potrebbe prevedere anche la più lieve autonoma fattispecie di chi trae  vantaggio patrimoniale dalla prostituzione altrui, facendosi dare o promettere vantaggi eccessivi in  cambio di una prestazione.  

 Occorre inoltre vietare espressamente ogni forma, diretta o indiretta, sia di discriminazione  sia di schedatura e registrazione. Bisogna istituire percorsi di accompagnamento che rispondano alle  esigenze effettive delle donne e di tutte le persone che si prostituiscono, siano esse relative alla salute  e all’accesso ai servizi, ovvero alla formazione e alla ricerca di lavoro per chi ha deciso di dedicarsi  ad altre attività. Invero, l’art. 3 del disegno di legge e il vincolo di destinazione del previsto Fondo  per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità sembrerebbe venire incontro, in termini  concreti, alle esigenze dei soggetti più vulnerabili. Tuttavia, il fatto di condizionare l’accesso ai  programmi previsti dall’art. 3 alla fuoriuscita dall’attività prostitutiva comporta il rischio di non  prendere in considerazione le difficoltà di affrancamento dagli sfruttatori, e in generale di trascurare  la necessaria gradualità di percorsi che comportano grandi cambiamenti, talvolta anche in termini di  percezione di sé e di conquista di autonomia.  

 Gruppo Esperte/i contro Sfruttamento e Tratta   (EcST)