Un “terzo percorso” di protezione sociale per le persone vulnerabili allo sfruttamento? Un’ipotesi a partire dallo sfruttamento sessuale.

Guardare allo sfruttamento sessuale, lavorativo e di altro genere dalla parte delle persone sfruttate significa guardare prima di tutto – e soprattutto – a come favorire il loro accesso alla fruizione di diritti, sia civili sia sociali, e a come favorire il loro accesso alla giustizia.

L’esperienza degli enti anti-tratta ci insegna che occorre promuovere politiche di empowerment delle persone sfruttate. In particolare, le associazioni di ispirazione femminista che hanno basato le loro pratiche sulle relazioni significative tra donne, hanno raggiunto risultati importanti, evitando ogni forma di paternalismo. Anche altre esperienze, di matrice religiosa e laica, hanno valorizzato quella che possiamo definire “autonomia in relazione” delle donne sfruttate, nel rispetto dei loro diritti. 

Occorre inoltre ricominciare a discutere del contesto normativo sulla prostituzione al di fuori di ogni approccio ideologico. Quando parliamo di sfruttamento sessuale, il contesto fattuale, sociale e culturale, è ancora caratterizzato da un approccio stigmatizzante e repressivo nei confronti della prostituzione in quanto tale. Alcune forme di repressione esplicita vengono di volta in volta riproposte in varie città italiane, laddove per motivi vari e talora fantasiosi viene vietata la prostituzione all’aperto attraverso ordinanze sindacali. 

Anche nelle sue forme ispirate a un approccio ideologico che può apparire protettivo nei confronti delle donne, e che può derivare da una matrice femminista come nel caso dei Paesi nordici, o da una matrice religiosa di vario genere, l’approccio punitivo è in ogni caso quello che ispira l’intero discorso sulla prostituzione. 

Infatti l’enfasi posta dal c.d. “modello nordico” il cui nucleo essenziale è la punizione dei clienti, in realtà non fa che convalidare l’approccio repressivo che già domina in questo campo, e che indirettamente coinvolge non solo i clienti ma anche le donne sfruttate, riflettendosi negativamente sulle loro condizioni di vita. 

Sospingere la relazione sessuale commerciale nell’ambito dell’illegalità rende più vulnerabili le donne, che non sono penalmente perseguibili ma sono costrette a nascondersi, e a diventare ancora più dipendenti dai loro sfruttatori. Questi ultimi infatti sono chiamati a garantire anche la “sicurezza” nel senso della invisibilità e non tracciabilità della relazione sessuale commerciale, e  hanno quindi la possibilità di segregare le donne in ambienti chiusi e da loro controllati. Infatti il risultato del modello nordico in molti Paesi è un massiccio aumento della prostituzione indoor, che comporta condizioni di maggiore dipendenza delle persone sfruttate, e di maggiore difficoltà per i servizi di raggiungerle. 

Dire che bisogna guardare allo sfruttamento sessuale come questione di diritti violati richiede in primo luogo di capovolgere l’impostazione punitiva, che sia pure indirizzata contro gli uomini, finisce col colpire anche le donne, e in modo ancora più grave. Richiede soprattutto di guardare a questo problema dal punto di vista dei diritti delle donne e di tutti i soggetti, ivi compresi LGBTQI, uomini, e – importante sottolinearlo – ragazzi e ragazze minorenni, sottoposte/i a varie forme di sfruttamento sessuale. Infatti non vi è solo la prostituzione, ma varie forme di sfruttamento, che in tempi di COVID si realizzano  ancora più di prima attraverso il web. 

Sono convinta che occorra rivedere la legge Merlin conservandone l’approccio non criminalizzante, e spingere più avanti la depenalizzazione di tutte le condotte che non possano qualificarsi come sfruttamento. Quindi occorre depenalizzare le condotte di favoreggiamento che spesso non sono altro che condotte collaborative tra persone sfruttate, così potenzialmente attenuando la loro dipendenza dagli sfruttatori. Inoltre occorre riconoscere alle vittime di sfruttamento della prostituzione ai sensi della legge Merlin la qualità di persone offese nel procedimento penale e il loro diritto a costituirsi parte civile e a chiedere il risarcimento del danno. 

Per quanto riguarda le politiche anti-tratta, è mia convinzione che si debba operare un definitivo sganciamento tra il riconoscimento dell’esistenza di una situazione di sfruttamento o di vulnerabilità allo sfruttamento, e il procedimento penale. Questo non perché la repressione penale non sia importante allo scopo di prevenire e contrastare la tratta, giacché la l’impunità è sempre un elemento di forza delle organizzazioni criminali. E certamente, quando la condizione di vittima emerge nel corso del procedimento penale, l’art. 18 del Testo Unico sull’Immigrazione – nel suo percorso giudiziario – e l’approccio multi-agenzia assicurano un corretto referral della persona offesa ai servizi sociali degli enti enti-tratta. 

Tuttavia occorre considerare che l’area dello sfruttamento sessuale rilevante dal punto di vista dei diritti delle persone assoggettate a questo e ad altri tipi di sfruttamento, è necessariamente più ampia rispetto a ciò che dal punto di vista penalistico possa essere qualificato come tratta o riduzione in schiavitù, o nel campo del lavoro anche come sfruttamento del lavoro ex art. 603 bis del codice penale. Se è vero che le definizioni dei predetti reati sono ampie, è pur vero che esse vengono interpretate ancora troppo restrittivamente. In ogni caso la questione relativa al trattamento delle persone soggette a forme di sfruttamento non riconosciute come reati penali resta al momento irrisolta.   

Inoltre, un procedimento penale che viene iniziato per questi reati può anche concludersi con un’archiviazione per le più svariate ragioni. In questo caso, non vi è alcuna ragione per cui debba essere negato l’accesso ai programmi di inclusione sociale ed eventualmente anche al permesso di soggiorno alle persone sfruttate, solo perché il procedimento penale è stato archiviato.

Qui vediamo la gravità della ormai generalizzata scorretta applicazione dell’art. 18 TUI, ridotto di fatto al solo percorso giudiziario. Peraltro questa impostazione è stata purtroppo adottata dal legislatore nella redazione dell’art. 18-bis  e 22 comma 12-quater del Testo Unico sull’Immigrazione. 

In Italia disponiamo di un sistema anti-tratta diffuso sul territorio che ha un’esperienza ventennale, che è in rapporto costante con le istituzioni, e che è affidabile. Gli enti anti-tratta sia del pubblico sia del privato-sociale, che lavorano con un approccio multi-agenzia con le istituzioni competenti, sono perfettamente in grado di riconoscere l’esistenza di situazioni di sfruttamento e anche di vulnerabilità allo sfruttamento, cui hanno fatto riscontro molte prese in carico e accompagnamento di persone vulnerabili.  

Quest’ultimo aspetto – il riconoscimento della vulnerabilità – è essenziale non solo durante le procedure di asilo – conformemente alla pratica di eccellenza sviluppata dalle Commissioni territoriali asilo, dalle sezioni specializzate dei Tribunali e dagli enti enti-tratta –  ma anche nelle situazioni di primo arrivo, quando lo sfruttamento non ha ancora avuto luogo in Italia, ma ha avuto luogo nei Paesi di transito, o comunque quando la persona è già inserita – per esempio per l’esistenza di un debito – nella rete dello sfruttamento. 

Dunque io credo che abbiamo bisogno di un terzo percorso, oltre a quello giudiziario (che attualmente è l’unico di fatto applicato), e oltre al percorso sociale (che si dovrebbe ricominciare ad applicare su larga scala): un percorso di empowerment e inclusione sociale basato sul presupposto della vulnerabilità, che dovrebbe essere valutato dagli enti anti-tratta o da team interdisciplinari sul territorio, come ho sostenuto anche nei miei rapporti all’ONU durante il mio mandato di Special Rapporteur dell’ONU sulla tratta. 

Come si individua la vulnerabilità? Diverse organizzazioni internazionali hanno prodotto indicatori, tra cui restano validi e molto utili quelli prodotti dall’ILO in cooperazione con la Commissione Europea. In Italia, da ultimo, l’UNHCR con le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale hanno rivisitato le Linee Guida che contengono indicatori dettagliati anche sullo sfruttamento lavorativo. Soprattutto, si può fare affidamento sull’esperienza ed expertise degli enti anti-tratta. 

Al riconoscimento di una situazione di vulnerabilità dovrebbe fare riscontro una presa in carico territoriale, fondata su protocolli multi-agenzia, che dovrebbe utilizzare e ottimizzare le risorse presenti nel territorio per risolvere i problemi più urgenti come l’alloggio e un’alternativa di lavoro, indirizzare la persona verso i servizi sociali e sanitari, e accompagnarla in un percorso individualizzato di inclusione sociale e di rivendicazione dei propri diritti. 

E’ importante sottolineare l’importanza di un corretto inquadramento teorico della nozione di vulnerabilità.

 Questo concetto infatti ha un passato pesante e un significato ambiguo. La vulnerabilità è stata storicamente associata alle donne e ai minori come soggetti intrinsecamente deboli e dunque vulnerabili. Questo approccio affiora ancora oggi nel titolo del Protocollo di Palermo contro la tratta e anche nel titolo del mio mandato ONU recentemente venuto a scadenza. Al contrario, quello di vulnerabilità è un concetto sociale e situazionale, influenzato da molteplici fattori. Per quanto riguarda le donne, la vulnerabilità è prioritariamente connessa con la loro posizione subordinata nelle gerarchie di potere patriarcali, e dunque, fra l’altro, con la pretesa maschile di controllo del corpo femminile, la normalizzazione della violenza contro le donne, la divisione sociale del lavoro che assegna alle donne la responsabilità esclusiva della famiglia e della cura. 

Ciò fa sì per esempio che sia spesso la giovane donna a dover partire, a doversi “sacrificare” per la sopravvivenza dell’intera famiglia, e anche a ciò è dovuto in larga misura il fenomeno della femminilizzazione dell’immigrazione. Le donne hanno meno accesso alle risorse materiali e culturali in molti Paesi del mondo, il che le spinge e spesso le obbliga alla migrazione, e anche questo rimanda al fenomeno della femminilizzazione della povertà al livello globale.  

La vulnerabilità non significa mancanza di autonomia decisionale, quello che in inglese si chiama “agency”. Purtroppo lo stereotipo della “perfetta vittima”, priva di qualunque volontà, nuoce molto al corretto riconoscimento delle vulnerabilità delle persone sfruttate, quando esse mostrano autonomia di giudizio e capacità critiche anche nei confronti delle stesse istituzioni e pratiche protettive. 

La verità è che le vulnerabilità delle donne e soprattutto delle donne immigrate, spesso intersezionali, in cui si cumulano gli effetti delle discriminazioni basate sul genere, la razza, lo status sociale e di soggiorno, le esperienze di violenza e sfruttamento già subite, non azzerano mai del tutto la loro autonomia decisionale.

Al contrario, l’agency è una delle principali risorse delle persone vulnerabili, che con politiche di empowerment possono riprendere il controllo delle proprie vite. A quel punto, le scelte spettano soltanto loro, e meritano rispetto, ivi compresa quella di riprendere il proprio percorso migratorio come risultato della fuoriuscita dallo sfruttamento. Queste scelte sono invece ostacolate o totalmente impedite dalla normativa in materia di immigrazione.

Dunque, stare dalla parte dei diritti delle persone sfruttate significa anche fare buon uso dei concetti sociologici e delle nozioni giuridiche. 

Voglio qui toccare anche il tema delicato della nozione di dignità, che è ineludibile quando si parla di sfruttamento sessuale, e che è stato recentemente affrontato anche dalla Corte Costituzionale e, in maniera a mio parere non condivisibile. 

Dei due significati presenti nel dibattito filosofico e giuridico, voglio con chiarezza indicare come valido, a mio parere, quello che considera la dignità come un attributo inerente alla condizione umana, in connessione con i principi di libertà e uguaglianza. In questo senso la nozione di dignità si collega alla libertà di autodeterminarsi, anche nella sfera sessuale, e a quella dell’uguale diritto di ogni persona a godere dei diritti fondamentali, indipendentemente dalla posizione occupata nella gerarchia sociale ed economica. 

Il secondo significato, accolto invece dalla Corte Costituzionale nella sentenza 141/2019, deriva invece da una concezione oggettiva e astratta di dignità definita attraverso un parametro esterno, riferito a al comune sentire di una società in un certo momento storico. L’aspetto più inquietante di questa seconda concezione, che non si sottrae al rischio di un moralismo strisciante, è che in nome della dignità potrebbero essere limitati tazione critica v. non i diritti di altri soggetti eventualmente responsabili della violazione della dignità, come avviene nel caso delle limitazioni all’iniziativa economica poste un nome della dignità dall’art. 41 Cost., bensì potrebbero essere limitati i diritti dello stesso soggetto la cui dignità sarebbe in discussione, nella specie l’autodeterminazione sessuale. 

La nozione di dignità intesa come autodeterminazione sessuale non designa una condizione che debba essere riconquistata attraverso il percorso di integrazione sociale. Nessuna persona perde la propria dignità per il fatto di essere sottoposta a sfruttamento. Gli sfruttatori possono violare la dignità, che può essere mortificata dalla costrizione, dalla violenza, dalle umiliazioni e dagli abusi, ma non può essere eliminata. Il processo di inclusione sociale non è un processo di riconquista della dignità da parte della persona sfruttata, ma piuttosto un processo che valorizza la sua dignità come risorsa soggettiva per la conquista di condizioni personali e sociali consone con il principio enunciato dall’art. 3 della Costituzione. 

Per concludere, credo sia venuto il tempo di una revisione importante della normativa vigente in materia di sfruttamento e tratta, a partire dai diritti delle persone sfruttate e trafficate.