Le chiavi della città di Firenze a Nasrin Sotoudeh, difensora dei diritti delle donne

Le tappe del lungo percorso di presa di parola delle donne sulla scena internazionale ebbe una tappa fondamentale a Vienna nel 1993, in occasione della Conferenza sui diritti umani, cui parteciparono molte organizzazioni femminili e femministe. La dichiarazione conclusiva, all’art. 18 affermava che “I diritti umani delle donne e delle bambine sono parte inalienabile, integrale e indivisibile dei diritti umani universali. […]”1

Al Cairo nel 1994 si tenne la conferenza sulla popolazione e lo sviluppo. Qui i diritti delle donne si allargarono alla sfera sessuale e riproduttiva. Questo aspetto fu sotto attacco nei decenni successivi, e infatti non venne riprodotto nella Dichiarazione del millennio approvata dall’ONU nel 2000. 

Alla Conferenza di Pechino del 1995 si ribadì che i diritti delle donne sono diritti umani. Fu Hillary Rodham Clinton a pronunciare il discorso che fece di questa espressione uno slogan politico del movimento delle donne al livello mondiale. Oggi, che Joe Biden e Kamala Harris hanno vinto le elezioni negli Stati Uniti, oggi che per la prima volta una donna sarà vice presidente, oggi, nel giorno della sconfitta di un presidente dichiaratamente misogino, credo sia giusto dedicare un pensiero alla perdente di quattro anni fa, Hillary Rodham Clinton, che con il suo impegno per i diritti delle donne ha aperto la strada a questa svolta epocale.

Che cosa significa dire che i diritti delle donne sono diritti umani?

Non si tratta certamente della negazione della universalità e indivisibilità dei diritti umani.

Al contrario, si tratta del riconoscimento che donne e uomini hanno uguale diritto a sviluppare allo stesso modo le loro capacità – per dirla con Amartya Sen a Martha Nussbaum – e dunque a sviluppare la loro personalità in tutte le sfere, sia nella sfera pubblica sia in quella privata, sia nel campo delle emozioni sia nel campo della razionalità, sia nelle arti sia nelle scienze, ad essere allo stesso tempo esseri autonomi, vale a dire capaci di decidere sulle proprie vite, e interdipendenti e perciò capaci di cura verso gli altri.

Viceversa, tradizionalmente il soggetto di diritto è stato modellato sulla cultura tramandata dalla genealogia maschile, in cui il soggetto è considerato come dotato di autonomia solo in quanto separato dagli altri, atomizzato, inconsapevole dell’ “io in relazione” che è il portato più significativo e fecondo del femminismo. Ne è corollario la rigida separazione tra pubblico e privato, contestata dal femminismo degli anni ’70, e la conseguente segregazione delle donne nella sfera privata. La modesta presenza delle donne nella politica, nei governi e in generale nei luoghi di decisione, ne è ancora oggi testimonianza.

Che i diritti delle donne siano diritti umani, significa anche negare valore a quella distinzione accademica e ormai superata, in base alla quale sono diritti umani solo quelli suscettibili di essere violati dai poteri pubblici. Tuttavia le violazioni dei diritti delle donne avvengono anche e soprattutto nella sfera delle relazioni intime, come nel caso della violenza domestica e quasi sempre anche della violenza sessuale; in ogni caso molte violazioni gravissime vengono perpetrate da organizzazioni criminali o singoli individui come nel caso della tratta. In tutte queste situazioni, i diritti delle donne che vengono violati sono diritti umani e richiedono da parte dei pubblici poteri un’azione efficace di prevenzione, di individuazione e punizione dei responsabili, e di riparazione nei confronti delle donne che tali violazioni hanno subito. 

Oggi le donne prendono parola sul mondo. Questa presa di parola è una delle tante manifestazioni del tramonto del patriarcato, di un regime durato millenni, che ha talmente permeato la vita sociale da essere non solo accettato dalle donne, ma da loro consapevolmente o inconsapevolmente trasmesso ai figli e alle figlie come valore primario dell’ordine sociale. 

Nel Sottosopra Rosso del 1996 la Libreria delle donne di Milano annunciava la fine del patriarcato. L’affermazione aveva un  significato simbolico, poiché – si diceva – il patriarcato ha perso il credito delle donne, nel senso che le donne non credono più in quell’ordine sociale, e pertanto il patriarcato è finito. 

Ciò non significa che il patriarcato sia finito nella realtà del mondo, un mondo ancora caratterizzato da uno squilibrio strutturale di potere e di poteri tra donne e uomini,  un mondo in cui assistiamo a terribili situazioni di disuguaglianza e oppressione delle donne, che in molti Paesi non possono ereditare, sono costrette da norme sociali percepite come cogenti a fare mutilare ai genitali le proprie figlie, che perdono la custodia dei figli se il marito decide unilateralmente di ripudiarle, che restano intrappolate per tutta la vita in un matrimonio che dissimula una condizione di schiavitù domestica e sessuale, che sono obbligate alla prostituzione o al lavoro forzato da trafficanti che approfittano della loro vulnerabilità sociale, o che sono private della libertà di manifestare il loro pensiero. 

La pandemia di COVID-19 sta aggravando oggi la femminilizzazione della povertà. I lavori delle donne, spesso occupate nell’economia informale, sono stati i primi ad essere tagliati. La conseguenza è che milioni di donne, anche a causa dello smantellamento delle catene del subappalto nel settore tessile ed in altri settori, ancora più degli uomini hanno dovuto affrontare la disoccupazione e la precarietà, con la conseguenza della perdita non solo di reddito ma anche di autonomia. 

Per contro, che cos’è la libertà delle donne? Due filosofe e giuriste femministe – Orsetta Giolo e Alessandra Facchi – hanno recentemente scritto che la libertà non coincide con la la mera possibilità di scegliere 2. In altri termini, non si può dire che nel mercato del neoliberismo, chi compie una scelta sia per ciò stesso libera/o. Occorre piuttosto guardare alla condizione di chi sceglie, e dunque alla sua “condizione di libertà”. Chi subisce un dominio, il dominio di un potere dittatoriale, o il potere di un soggetto privato, trafficante, o sfruttatore, o partner violento, benché apparentemente “scelga” la sua situazione di sottomissione, in realtà non ha una condizione di libertà e dunque non può compiere una scelta libera. Non si mette qui in discussione il fatto che le donne abbiano comunque una loro autonomia, e siano in grado di sfruttare anche minimi spazi di negoziazione, perfino in situazioni estreme. Si vuole dire piuttosto che la scelta di una donna è una decisione veramente libera solo se vi è una “condizione di libertà”, vale a dire un complesso di circostanze che le consentano di avere delle valide alternative. 

Dunque la condizione di libertà richiede il pre-requisito dell’accesso alle risorse materiali e culturali, che deve essere assicurata dalle istituzioni pubbliche mediante interventi di giustizia redistributiva. Inoltre la condizione di libertà deve essere connotata dall’assenza di dominio, non solo dei  pubblici poteri ma anche dei poteri privati – ivi compresi i datori di lavoro – e/o delle autorità familiari, comunitarie o religiose, garanti di norme tradizionali particolarmente oppressive per le donne. Gli esempi di quest’ultimo tipo sono purtroppo numerosi e comprendono situazioni di varia natura, tra cui quella vera e propria schiavitù di fatto che sono i matrimoni forzati, che coinvolgono globalmente più di 20 milioni di donne. 

Seguendo il pensiero di Martha Nussbaum, la libertà non è solo una questione di diritti formali, ma richiede che vi siano le condizioni per esercitare quei diritti. D’altra parte la Costituzione italiana esprime un concetto analogo nell’art. 3 cpv., e la cultura giuridica nel nostro Paese ha una lunga e importante tradizione fondata proprio sul principio di uguaglianza sostanziale

Dunque, i diritti delle donne diventano effettivi quanto più la situazione di fatto, anche grazie all’intervento dei pubblici poteri, si avvicina a a quella “condizione di libertà” che consente l’esercizio dei diritti riconosciuti a tutte e a tutti dagli strumenti internazionali e dalle carte costituzionali. Questa concezione di libertà si coniuga con il principio di uguaglianza e non discriminazione, e con l’idea e la pratica della giustizia sociale. 

Purtroppo oggi, la condizione di libertà e giustizia è negata, in molti Paesi, a donne e uomini. Ma per le donne la mancanza di libertà, e nonostante ciò la loro presa di parola, hanno un significato politico inedito. 

Per questo la cerimonia di oggi, è particolarmente importante. 

Attualmente assistiamo al fatto relativamente nuovo che molti regimi patriarcali e autoritari sono sempre più feroci nei confronti della presa di parola di una donna e dei comportamenti femminili considerati trasgressivi. Lo sono in generale nei confronti di qualsiasi manifestazione di dissenso; ma mentre le donne nei regimi patriarcali hanno tradizionalmente goduto di un trattamento penale più indulgente rispetto a quello degli uomini, oggi subiscono una repressione altrettanto se non più feroce. 

La presa di parola delle donne per questi regimi è insopportabile, poiché provenendo da persone che ne sono state tradizionalmente prive, svela tutta la debolezza e instabilità di questi regimi che si vorrebbero credere onnipotenti. In altre parole, la presa di parola delle donne svela che questi regimi sono agonizzanti. La loro agonia potrà essere molto lunga, e portare con sé ancora molte ingiustizie e lutti, ma è sotto gli occhi di tutti. La parola femminile ha la forza e l’autorità di svelare che il re è nudo.

Per questa ragione siamo, oggi e sempre, con Nasrin Sotoudeh con tutte e tutti coloro che hanno il coraggio – e ce ne vuole tanto, in molti Paesi – di prendere parola, e di denunciare l’illibertà e l’ingiustizia.

1 Intervento pronunciato in occasione della consegna delle chiavi della città di Firenze a Nasrin Sotoudeh, avvocata iraniana, difensora  dei diritti umani, che aveva rappresentato in tribunale le donne che protestavano contro l’imposizione di portare il velo. Condannata a 38 anni di carcere e 148 frustate, è stata scarcerata temporaneamente per curarsi dal COVID dopo molti giorni di sciopero della fame, in condizioni di grave debilitazione. L’espressione utilizzata come titolo dell’intervento è di Bianca Pomeranzi, già rappresentante dell’Italia nel Comitato CEDAW.

2 A. Facchi, O. Giolo, Libera scelta e libera condizione. Un punto di vista femminista su libertà e diritto, Il Mulino, 2020.