Il lavoro deve essere libero dallo sfruttamento

Il 1 maggio è una festa. Ma tante/i vivono una condizione lavorativa di super-sfruttamento, nelle campagne, nelle case, nei camion, nei ristoranti, negli alberghi e in tanti altri luoghi. Almeno 180.000 sono le persone sfruttate in Italia nel solo settore agricolo, di cui almeno il 30% donne. Immigrate/i, richiedenti asilo e rifugiate/i sono particolarmente vulnerabili. Che fare per affrontare la dimensione strutturale del grave sfruttamento? Le legislazioni nazionali non sono adeguate, né sono adeguati gli strumenti internazionali, entrambi pensati per combattere un crimine, la tratta di esseri umani, mentre qui si tratta di affrontare una grave distorsione del sistema economico e sociale, che in nome del neo-liberismo e del mercato senza regole ha creato le condizioni per il super-sfruttamento, talora para-schiavistico, diffuso in tutti  i settori economici. 

Un cambiamento radicale nell’approccio a questo problema è necessario. In Italia si è fatto un passo avanti con l’introduzione e poi la riforma dell’art. 603-bis del codice penale, che punisce lo sfruttamento del lavoro e l’intermediazione illecita, con il Piano triennale contro lo sfruttamento e il caporalato, e con le pratiche degli enti anti-tratta, che hanno raggiunto e preso in carico anche molte persone soggette a grave sfruttamento lavorativo. 

Questo tuttavia non basta, perché vanno potenziate le azioni volte all’emersione e alla presa in carico delle persone sfruttate o a rischio di qualunque tipo di sfruttamento, e alla loro  inclusione sociale, ivi compreso il risarcimento del danno, un’alternativa di lavoro non sfruttato, e l’acquisizione di uno status di soggiorno. 

Non bisogna avere paura di fare proposte innovative. Quando ho lanciato l’idea di un nuovo strumento internazionale sullo sfruttamento e  la tratta, mi sono spesso trovata di fronte a molte obiezioni e riluttanze. E’ ben vero che un nuovo strumento internazionale non è al momento fattibile. Ma occorre che ad un certo momento se ne cominci a parlare, e soprattutto si cominci a riflettere su quali aree non sono attualmente coperte da normative ispirate ai diritti umani, a cominciare dalla prevenzione e ai rimedi per chi ha subito sfruttamento o a è a rischio di subirlo.

Facendo questo, stiamo cercando di “reinventare la ruota”? In primo luogo, questo antico adagio perché non mi piace esprime la quintessenza del conservatorismo. Ogni tanto bisogna ripensare anche la ruota, per farla funzionare meglio. Altrimenti non sarebbero mai stati inventati gli pneumatici…. In secondo luogo, non si tratta di chiedere una nuova convenzione internazionale in questo momento, anche perché abbiamo bisogno di un percorso, di una roadmap verso una nuova legislazione, al livello nazionale e internazionale. Con questo obiettivo in mente, credo si debba ripartire dalle reti che in questi ultimi venti anni hanno costruito al livello nazionale sistemi di protezione che hanno funzionato, nonostante siano state costrette a navigare attraverso normative spesso inadeguate. Da queste esperienze occorre trarre le idee da porre a base di nuove proposte di modifica delle legislazioni nazionali. 
In Italia, con altri venti specialisti, abbiamo messo insieme un gruppo di lavoro che sta ripensando le norme e le pratiche, con l’obiettivo di fare una proposta e di svolgere un’azione di advocacy, insieme con le reti degli enti anti-tratta.  Al livello internazionale, il gruppo “Freedom from Exploitation” esplorerà la possibilità di suggerire un approccio innovativo.